Voglio mangiare il tuo pancreas: vale la pena vederlo al cinema?

Scrivere di Voglio mangiare il tuo pancreas significa inevitabilmente viaggiare all’interno di una produzione ricca di elementi discontinui e di visioni direzionali decisamente in conflitto tra di loro. Non che mi fossi fatto aspettative così positive riguardo al film: Shinichirou Ushijima è un nome noto ai più soprattutto come storyboarder di sequenze d’apertura, di chiusura e ancora prima come assistente di produzione per una Madhouse già in declino. Non ha ancora avuto l’occasione di sviluppare una sua personale sensibilità autoriale e, quel che è peggio, è stato affiancato da altri cinque registi ben più esperti e riconoscibili di lui, tra cui la colonna portante dello studio Shaft Tomoyuki Itamura e l’allievo di Osamu Dezaki Fumihiro Yoshimura. Ushijima inoltre, che non si è mai dedicato alla scrittura prima d’ora, appare nei crediti finale come sceneggiatore unico di una pellicola realizzata tra mille studi d’animazione, sia giapponesi che cinesi e coreani.

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Come sospettavo, i presupposti per un bel “No”, durissimo e senza pietà alcuna, alla domanda “vale la pena vederlo al cinema?” ci sono tutti: I due protagonisti motivano le loro azioni con frasi fatte ed articolando ragionamenti dal bel suono ma decisamente poco solidi, la scrittura è costretta a ribaltare continuamente le carte in tavola per stupire lo spettatore ma così facendo si allontana goffamente dalla possibilità di sviluppare ogni possibile tematica, le citazioni letterarie vengono contestualizzate a malapena ed i tre storyboarder sembrano proprio non riuscire a trovare dei punti d’incontro comuni nella rappresentazione degli spazi tridimensionali, così come nelle scelte di fotografia e delle inquadrature. Questo non significa che non vi siano scene dalla peculiare atmosfera, ma i diversi segmenti narrativi non riescono affatto ad amalgamarsi ben bene tra di loro.

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Per curiosità ho deciso di addentrarmi anche nella lettura del romanzo originale di Yoru Sumino, che mi ha convinto di come, indipendentemente dalle risorse umane impiegate, ogni genere di trasposizione dalle tinte conservative si sarebbe comunque ritrovata a soffrire dei medesimi problemi: Kimi no Suizō o Tabetai rimane una storia che verte fortissimamente su una tragicità preannunciata, appesantita dal continuo disvelamento di risvolti strappalacrime, per nulla interessata a sviluppare tematiche d’ampio respiro come quella del convivere con una malattia terminale. Addirittura, sul finale Voglio mangiare il tuo pancreas diviene un racconto di formazione in cui il protagonista, anziché dimostrare una sincera crescita congeniale a quel suo carattere che pareva così monolitico, si limita a reinterpretare la personalità di un altro personaggio. Ci troviamo davanti ad un dramma davvero grezzo, ad un date movie del quale ci scorderemo in fretta persino i cognomi dei protagonisti.

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Eppure, per quanto le sopracitate siano senza ombra di dubbio falle titaniche, sarei estremamente disonesto se non mi addentrassi in quello che a mio avviso è l’aspetto più riuscito del film: il suo sensibile e ricco comparto d’animazione. I design di Yuichi Oka paiono davvero il capolavoro del talentuoso supervisore delle animazioni: dalle poche linee ma estremamente solidi dal punto di vista delle anatomie e delle possibilità espressive, adattabili a contesti scenici ricchi o totalmente privi di ombre, sono loro il vero collante stilistico del film. Riescono a mantenere una decisa tridimensionalità di fronte ad ogni scelta di fotografia della regia e, soprattutto per quanto riguarda i personaggi femminili, la supervisione delle animazioni è davvero impeccabile. Un altro importante merito di Oka e dell’illustratore ed animatore loundraw è quello di aver donato a Sakura, la protagonista femminile del film, un vasto e variegato set di abiti tra di loro che esprime con allegra spontaneità la femminilità e l’amore per la vita della ragazza.

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Per quanto riguarda le animazioni in senso stretto mi è impossibile non citare l’ace animator di questa produzione, Keisuke Kobayashi, che ha realizzato un impressionante quantitativo di sequenze in cui è un’attenta analisi del linguaggio del corpo dei più giovani nei loro momenti di maggiore vulnerabilità a farla da padrone. Mi spingo fino a dire che alcune delle sue scene all’interno di questo film rappresentano con ogni probabilità il suo output di livello più alto, in grado di coinvolgere profondamente lo spettatore affiancandosi con maestria davvero non comune ai doppiaggi, sia a quello italiano che a quello nipponico. Oltre a Kobayashi, nel film figurano molti altri animatori dalla grande abilità tra cui Shingo Fujii, Tatsuya Miki, Saori Sakiguchi, Mai Toda ed in generale il costante outsourcing internazionale non si fa sentire quasi per nulla.

A dirla tutta però, i layout di molte scene, soprattutto di quelle non realizzate da Kobayashi, sono stati corretti in maniera alquanto approssimativa e, quasi sempre, parecchio banale. Molto spesso infatti è possibile notare delle variazioni alquanto drastiche nelle angolazioni e nell’uso degli obiettivi virtuali da cut a cut. Questo, similmente a quanto accade più in generale con altre scelte registiche, non produce ambienti o segmenti criptici o difficili da seguire, ma crea piuttosto atmosfere blande in cui risulta difficile lavorare a delle vere e proprie escalation sentimentali.

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In definitiva Voglio mangiare il tuo pancreas è un brutto film d’animazione, che non merita assolutamente una visione in compagnia di qualche amico? Non direi, ma non posso nemmeno definirlo un prodotto riuscito o un bel film. Kimi no Suizō o Tabetai è l’equivalente animato di un uccello senza ali, una creatura mediocre di cui a breve non sentiremo più parlare. È un film che consiglio? No, a meno che non siate davvero dei grandi fan del genere o dei sakuga otaku patentati. In tali casi qui trovate uno sconto sul prezzo del biglietto.

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