Intervista ad Andrea Fontana, saggista e critico cinematografico

Per quanto negli ultimi anni molteplici realtà intellettuali in giro per il mondo stiano cercando la propria personale via per raccontare il medium anime, indirizzandolo verso questa o quella direzione, ad oggi (e soprattutto nel nostro Paese) questa forma d’arte è maggiormente studiata in quanto parte del cosiddetto “Cinema d’animazione”. Non si può parlare degli studi sul Cinema d’animazione giapponese in Italia senza citare Andrea Fontana.

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Classe 1981, è autore di numerosi saggi ed articoli che nel corso dell’ultimo decennio hanno arricchito in maniera determinante il panorama italiano della letteratura critica a tema anime. Oltre ai suoi lavori dedicati ai cartoni animati, ha scritto di importanti registi di cinema dal vero come Shinya Tsukamoto e Ridley Scott ed oggi si dedica professionalmente anche alla sceneggiatura di fumetti.

Ho deciso di fargli qualche domanda per comprendere meglio la Storia della saggistica sull’animazione giapponese in Italia e la sua percezione dell’animazione giapponese attuale.

Quando ha compreso per la prima volta di essersi inguaribilmente appassionato all’animazione giapponese e quando invece si è convinto invece di voler produrre testi critici relativi questo argomento?

Si è trattato di un innamoramento vero e proprio esploso durante la mia infanzia. Credo sia uno di quei casi in cui esperienza biografica e storica coincidono perfettamente. Provo a spiegarmi: io sono nato nel 1981 e ho quindi vissuto il boom dell’animazione giapponese nelle TV locali durante gli anni Ottanta. Per i bambini di quella generazione, così come di quella immediatamente precedente, tutto era nuovo, inedito, diverso da qualsiasi cosa fossimo abituati a vedere in termini di audiovisivo. Una frattura, un’epifania che ha generato mitografie talvolta ingiustificate ma comunque tali da avere un impatto definitivo sulle nostre vite. Con gli anni quell’innamoramento non mi ha mai abbandonato, forse anche per fattori nostalgici, quando ho cominciato a scrivere di cinema (il mio primo testo era la prima monografia mai pubblicata su M. Night Shyamalan) mi accorsi di quanto fosse povera la bibliografia dedicata agli anime. Ne feci una questione personale, un po’ come mi disse lo storico e critico Giannalberto Bendazzi: era come essere un archeologo in procinto di fare meravigliose scoperte. Detto così sembra essere stato tutto facile: tutt’altro. È stata una guerra, un continuo lottare con pregiudizi e preconcetti che esistono tuttora nell’universo critico.

Il testo “Storia dell’Animazione Giapponese dal 1984 al 2007” scritto con Davide Tarò, la sua prima opera a tema anime, è forse il testo che, a mio modestissimo avviso, ha sofferto maggiormente il passare del tempo così come la veloce evoluzione della comunità di appassionati dell’ultimo decennio. Che tipo di problemi ha dovuto affrontare nella stesura di quel saggio e cosa si ricorda del dibattito critico di quegli anni in merito all’animazione giapponese? Cos’è cambiato da allora, sia nella sua metodologia che in quel riesce a percepire del “discorso” sugli anime?

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Era un periodo di grande fermento. Volevamo lottare contro questo pregiudizio che non concepiva l’animazione giapponese al pari di altre opere cinematografiche dal vivo. Con Davide ci eravamo conosciuti per i suoi lavori con l’associazione/sito neoneiga e avevamo intenzione di scrivere qualcosa insieme. Adoravo il suo modo un po’ ghezziano di analizzare l’universo degli anime. L’editore di Il Foglio Letterario acconsentì a pubblicarci il libro e per noi fu una sorpresa, uno shock. Ma ci diede una deadline strettissima, non c’era un editor che potesse seguire la fase di scrittura e noi, giovani e appassionati, avevamo il desiderio di non perdere quell’occasione e pubblicare il prima possibile. Ce ne pentimmo quasi immediatamente. Il libro ebbe un enorme impatto nel settore editoriale (so che fu tra i più venduti della casa editrice per anni), credo che in qualche modo aprì una nuova stagione nella saggistica cinematografica dedicata agli anime. Ma era pieno di errori, graficamente era terribile. Non lo amo particolarmente ma mi ha permesso di portare avanti altri lavori che per me sono stati essenziali. Rispetto al 2007 tutto è cambiato. Il numero di pubblicazioni dedicate all’animazione nipponica sono elevate (non tutte di alto livello) e soprattutto il numero di titoli a disposizione del pubblico italiano non è comparabile con quello del 2007. Oggi grazie a Netflix, Amazon Prime, VVVID e altre piattaforme c’è una scelta che prima, semplicemente, non esisteva.

Nel corso della sua carriera quali strumenti critici, tipici degli studi sul cinema dal vero, l’hanno più aiutata nelle analisi relative ai cartoni animati? Ci sono stati, al contrario, degli specifici momenti in cui ha percepito dei loro limiti?

Per mia natura tendo sempre ad analizzare le filmografie basandomi sul concetto di Politica degli autori. È una cosa che vale tantissimo per alcuni registi nipponici e trovare la fondatezza di un percorso autoriale attraverso le singole filmografie mi aiuta a estrapolarne un discorso più ampio. Poi c’è l’aspetto puramente tecnico che varia dalla regìa al montaggio, fino alla scelta del tipo di animazione: cel shading, 2d, 3d, passo uno ecc. Cerco sempre di valutare un’opera nella sua complessità ma sempre partendo dalla componente cinematografica.

Si è mai trovato all’interno di un qualche acceso conflitto, di qualche diatriba relativa all’animazione nipponica con qualche altro critico o con qualche intellettuale, vero o presunto?

Sì, è capitato. L’ambiente della critica cinematografica non è molto diverso da altri ambienti malati. Io l’ho vissuta marginalmente e quando ho capito come era me ne sono allontanato. Il cinema, per me, deve essere un piacere, una passione, non uno strumento politico. Detto questo, l’animazione giapponese ha vissuto da sempre una difficoltà nell’imporsi in quanto forma artistica e con una propria dignità intellettuale. In Italia più che in altri paesi. Questa mia, nostra crociata ci ha portato a essere considerati come critici al limite, esclusi e spesso ostruiti nel nostro lavoro. Non è un discorso che vale in assoluto, in tanti mi hanno sostenuto e per questo non smetterò mai di ringraziarli.

Pensa che nei suoi lavori si possa percepire una parte delle sue idee politiche? Che ruolo hanno le idee politiche del critico all’interno dei suoi scritti?

Ti direi di no. O forse sì. Dipende da cosa intendi per idee politiche. Ogni gesto che compiamo nella nostra vita ha una valenza politica. Il mio voler scrivere di animazione giapponese ha un valore politico. Da questo punto di vista sì. Se quello che mi chiedi ha invece a che fare con il mio schieramento ideologico, mi pare che questo non abbia mai influenzato il mio modo di intendere e interpretare l’animazione giapponese.

Satoshi Kon: Il cinema attraverso lo specchio” scritto con Enrico Azzano e Davide Tarò rimane ad oggi uno dei testi più completi e curati a livello internazionale sul visionario regista. Anche se dalla mia ristretta prospettiva pare un testo davvero degno di essere letto, consultato e ricordato, come autore ha qualche rimpianto? C’è qualcosa ad oggi che non la soddisfa in merito a quel saggio?

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Forte dell’esperienza negativa avuta con “Anime – Storia dell’Animazione Giapponese dal 1984 al 2007” con Satoshi Kon mi sono mosso diversamente. Ho gestito il tutto a 360 gradi e avevo anche un po’ più di esperienza. Non ho rimpianti, lo dico sinceramente. Credo sia un libro meraviglioso, che vive dell’amore che ciascuno dei relatori ha per Kon. Vorrei trovasse una nuova vita, un aggiornamento con immagini a colori e una nuova veste editoriale. La speranza era di aggiornarlo con l’uscita del film postumo di Kon ma temo che questo non vedrà mai la luce.

Ad anni di distanza dalla stesura del libro, secondo lei è rimasto davvero qualcosa del tristemente defunto Satoshi Kon nell’animazione odierna?

Kon ha impattato l’animazione nipponica in maniera radicale! Una generazione intera di autori e registi ha preso ispirazione dalla sua forza immaginifica dirompente e ne ha fatto tesoro. Questa cosa emerge implicitamente o esplicitamente in molte opere. Kon è uno dei pochi autori che, nonostante la scarsità di lavori realizzati, sarà ricordato come uno dei più grandi.

Qualche nome?

Hiroyasu Ishida, il regista di Penguin Highway.

Passiamo a “La bomba e l’onda”, in cui guida il lettore in un peculiare viaggio all’interno del medium. Come mai ha deciso di strutturare il saggio per filoni tematici? Ha dovuto scartarne qualcuno durante la fase di scrittura?

La tesi del libro è che il cinema in quanto forma d’arte è espressione diretta degli accadimenti politici, storici, economici e sociali del reale da cui prende forma. Per dimostrarlo ho ripercorso la storia del Giappone e quella dell’animazione nipponica ponendole una di fianco all’altra. La scelta di usare filoni tematici mi ha permesso di schematizzare e semplificare un lavoro che di per sé era molto complesso.

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Il testo si avvale del contributo di un gran numero di esperti di cultura giapponese. Come è nata questa felicissima, a mio dire, collaborazione con queste figure “esterne” alla critica cinematografica?

Se ci fai caso quasi ogni mio libro contiene interventi esterni. Questo mi permette di dar vita a libri che abbiano una visione più ampia, universale e meno soggettiva possibile. Per di più cerco sempre di coinvolgere persone che stimo, in alcuni casi sono amici personali, quindi l’esperienza di lavorare insieme è sempre formativa, per me.

Secondo lei “la Bomba e l’Onda” ha influenzato, almeno parzialmente, il panorama italiano degli anni a venire?

Oddio, non saprei dirti! Ho ricevuto numerosi attestati di stima, tantissimi complimenti. Il libro mi ha aperto tante porte, mi pare che su quel fronte non ci sia stato niente, almeno in Italia. A dire la verità non mi pongo queste domande, piuttosto spero che le conseguenze dei miei libri abbiano effetti positivi per la comunità di studiosi e appassionati.

Curiosità personale per la quale dovrà scusarmi ride imbarazzato: all’epoca della stesura sapeva cosa fosse un Kanada Ryu/Kanada Dragon? Nel 2018, quasi 2019 oramai, ritiene ancora Genma Taisen un titolo non così interessante dal punto di vista iconografico?

Ti riferisci al dragone di fuoco animato da Yoshinori Kanada? Deve essere una domanda trabochetto… Vidi Genma Taisen anni fa e da allora non l’ho più rivisto. Visti i nomi coinvolti rimane un titolo affascinante e per certi versi coraggioso ma con alcuni evidenti limiti narrativi e di ritmo.

Studio Ghibli. L’animazione utopica e meravigliosa di Miyazaki e Takahata” scritto con Enrico Azzano è forse il suo testo (a tema animazione chiaramente) ad oggi più riuscito. Con una prefazione scritta da un personaggio d’eccezione, quasi completamente privo di inesattezze questionabili, riesce ad entrare in profondità nella propria cerchia di argomenti fornendo informazioni ed elaborazioni preziose e mai scontate. Dopo aver prodotto questa perla, quasi monumentale, ritiene che vi sia ancora in lei un interesse critico per le figure professionali legate allo Studio? Avrebbe ancora un senso trattarle in futuro?

Sinceramente non credo di voler trattare ulteriormente l’argomento Studio Ghibli. Non è esclusa una nuova edizione aggiornata, alla luce della morte di Takahata e del nuovo film di Miyazaki, ma le energie che ho messo in quel libro mi hanno esaurito e infatti ho sospeso a data da destinarsi eventuali pubblicazioni saggistiche. Continuo a scrivere di animazione, di fumetto e di cinema, ma in una forma meno impegnativa come quella del saggio. Data la complessità del lavoro che c’è dietro lo Studio Ghibli smettere di parlarne è ovviamente impossibile, è qualcosa che torna e ritorna sempre. Ed è talmente ingombrante nella mia vita che travalica i confini dell’approccio critico.

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Chi sono i suoi saggisti a tema anime preferiti? Mi riferisco sia agli autori italiani che a quelli internazionali.

Marco Pellitteri rimane una delle persone più competenti che abbia mai conosciuto. Poi ci sono le persone con cui mi è capitato di collaborare: Enrico Azzano, Davide Tarò, Massimo Soumaré, Marco Bellano, Gianluca Di Fratta, Fabio Domenico Palumbo, Giorgio Mazzola e molti altri. Tra i giovani italiani apprezzo moltissimo Cristina Bignante, Italo Scanniello e Dario Moccia. Questi ultimi non sono propriamente saggisti ma contribuiscono in maniera fondamentale alla diffusione ragionata e seria della cultura animata giapponese.

Fra gli studiosi internazionali mi piacciono molto Brian Ruh, Jonathan Clements ed Helen McCarty.

Ha mai avuto il desiderio di vedere pubblicato un suo saggio o un suo articolo in lingua giapponese?

Certo! Mi basterebbe in inglese!

Lei ha avuto modo di osservare da vicino e vivere l’evoluzione della comunità italiana, sia di critici che di semplici appassionati, da oramai molto tempo. Ha qualche riflessione in merito alla popolarità senza precedenti dell’animazione nipponica nel nostro paese?

Come ho anticipato prima credo che il panorama sia cambiato molto rispetto a 10/15 anni fa. Da una parte l’offerta e la facilità di fruizione sono aumentate in maniera esponenziale. E questo è un bene. Dall’altra la qualità non è sempre all’altezza, non rilevo titoli in grado di contribuire in maniera determinante al cambio di rotta della storia animata. Ma si parla sempre di più di animazione giapponese. La si vede sempre di più, anche al cinema. Se ne distribuisce di più. si pubblicano saggi e articoli sugli anime senza il timore di essere tacciato come otaku pazzoidi. Quando ho iniziato, scrivere di anime implicava anche un lavoro di ricerca estenuante ma a tratti soddisfacente. Sembrava davvero di atterrare in un pianeta in cui vi erano stati solo pochissimi pionieri prima di te. Oggi non è più così ma forse è proprio questo quello che volevo…

C’è un qualche nuova figura del mondo degli anime che ha scoperto di recente che avrebbe il piacere di approfondire con degli articoli o con la scrittura di un saggio?

Tra le nuove figure sicuramente mi piacerebbe scrivere approfonditamente di Mamoru Hosoda, a mio parere tra i migliori dell’attuale generazione di autori. Ma ho da sempre il pallino di una monografia dedicata al mio mito personale: Katsuhiro Otomo.

Ci dica un nome, così su due piedi, che le ricorda lo stato presente dell’animazione giapponese.

Senz’ombra di dubbio Makoto Shinkai. Nel bene e nel male.

E uno che invece le fa venire in mente il futuro?

Ti vorrei dire Yuasa Masaaki ma probabilmente sbaglio.

Sempre parlando di futuro, ci dica cosa si augura per il futuro degli anime?

Che non smettano mai di avere quella forza di propulsione che li rende rivoluzionari. Sperimentare, giocare con i sentimenti e il linguaggio cinematografico, lavorare sul confine fra intrattenimento e coinvolgimento emotivo, profondità e leggerezza: questi devono essere gli elementi cardine su cui devono fondarsi gli anime.

Se è lecito chiedere, dopo aver pubblicato il fumetto al quale sta lavorando, tornerà presto in libreria con qualche saggio?

Purtroppo credo di no. Non escludo riedizioni di miei lavori passati ma ormai faccio fatica a immergermi nella complessità di un lavoro come un saggio di critica cinematografica. Ora sento di muovermi bene e con serenità nell’universo della narrazione, a fumetti e non. Credo che procederò in questo contesto. Credo di aver dato abbastanza e questa intervista mi fa davvero riflettere. Ho pensato spesso al valore del mio lavoro, se avesse un senso o meno. Il tuo entusiasmo e quello delle persone che mi scrivono per complimentarsi mi ripaga di tutto, anche del timore di aver fallito.

L’intervista è finita! Consigli ai lettori di FAR from Animation il lavoro che più la rende orgoglioso, in bocca al lupo per tutti i progetti futuri!

Domanda difficilissima! Direi Studio Ghibli e La bomba l’onda. Sono due libri che possono dare una visione complessiva della complessità che c’è dietro l’animazione giapponese.

Potete seguire Andrea Fontana sul suo sito e su Twitter.

 

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